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Facciamo finta di cadere dalle nuvole. Che vuol dire ’79-2013?
Fabio Fasola. «Nel 1979 feci la prima Sei Giorni a Brioude, in Francia sotto la cupola di Daniele Papi. Nel 2013 penso di star facendo l’ultima Sei Giorni della mia vita».
Tra le due date quante Sei Giorni, e con che risultati?
«Mah. Non ho memorizzato il totale, diciamo che dovrebbero essere una diecina, con diverse medaglie d’oro. Due volte mi sono trovato in testa, nell’allora Cecoslovacchia e in Inghilterra, poi l’ultimo giorno ho avuto problemi con la moto ed è finita lì. Diciamo che sono abbastanza soddisfatto della mia storia alla Sei Giorni. Le ho finite quasi tutte».
Cos’era la Sei Giorni nel ‘79, e cosa oggi?
«Nel ’79, quando mi ci sono avvicinato con la Fantic, ho partecipato emozionato e con la testa colma delle raccomandazioni ricevute da Papi e Pierluigi Rottigni. Quelle raccomandazioni sono dei fondamentali che mi sono rimasti impressi, come ogni volta che ricevi qualcosa da un Maestro. 2013, è cambiata non solo la Sei Giorni, ma il Mondo intero. Passando per le moto. C’è da dire che la Six Days è sempre stata una gara lunga ma non difficilissima, a meno che non fosse in Cecoslovacchia o Gran Bretagna dove piove sempre, e quest’anno in Sardegna si dimostra una gara davvero dura».
Quali ne sono le caratteristiche che ritieni salienti?
«Questa Sei Giorni è caratterizzata sicuramente dalla polvere, che è tanta. Speciali molto lunghe, e sempre diverse. Un giro lunghissimo con tante speciali, passandoci in tanti e tante volte le PS si “sfondano” in maniera tale che anche per un appassionato, come sono “diventato” io, diventano difficili».
Sono tutto sommato Speciali fettucciate. Perché?
«Secondo me hanno trovato facile fare così. Può darsi che chi ha deciso di farle così non si sia reso esattamente conto di quello che sarebbe successo. Effettivamente fa fatica anche il pubblico. Troppa polvere. E non sono le Speciali che possono favorire gli Italiani che giocano in casa».
Erano più difficili trent’anni fa, le Sei Giorni, o oggi?
«30 anni fa c’era il problema dell’affidabilità delle moto. I ritiri potevano andare a ruota libera e dovevi essere anche un buon meccanico. Oggi io vedo che sono al terzo giorno e, a dire la verità, la moto non l’ho neanche guardata, ho appena tirato un po’ la catena. L’affidabilità delle moto di oggi, e il motorino d’avviamento, fa una bella differenza sulla fatica e nella difficoltà di gestire la Corsa. I percorsi sono ancora difficili, ma con le moto di oggi lo sono certamente di meno».
È considerata l’Olimpiade dell’Enduro. Ma anche una grande festa. È sempre stato così?
«La Sei Giorni è sempre stata una grande festa del Fuoristrada. Una via di mezzo tra una grande competizione e il Carnevale di Viareggio. C’è l’agonismo massimo e il folklore. È sempre stato bello vivere l’ambiente della Sei Giorni. È un evento fantastico che ti fa davvero vivere l’Enduro».
Vale la pena di spendere molto tempo per prepararla e disputarla, dunque?
«Il problema, per l’appassionato, c’è. Io ho un passato da Pilota e venendo qui trovo vecchi amici, avversari, conoscenti, appassionati. Anche solo per questo vale la pena. Diventa difficile quando penso che ho anche altre cose importanti che mi aspettano a casa, e io invece sono qui. Ma questo è il genere di cose che ti fa fare la passione, e che possono essere ben lontane dalla logica. Di fatto son qui».
E sei qui anche perché hai uno zampino nella Nazionale.
«Ma sì, diciamo che mi hanno chiesto di dare una mano alla Nazionale femminile per la quale ho organizzato due ritiri. Ne sono molto contento, perché è un’esperienza che mi è piaciuta molto e soprattutto è la prima occasione di partecipazione ufficiale della Suqdra delle ragazze».