Marco Aurelio Fontana, dalle Olimpiadi alla Dakar

Dopo Rio e l’Olimpiade sfortunata, Marco Aurelio Fontana si rifugia all’Isola d’Elba per riposare, andare in moto e sognare una futura Dakar
21 settembre 2016

«Dai, prendi il primo traghetto e vieni. Marco Aurelio ti aspetta!» Non ci credo del tutto, Fabio Fasola è capace di balle spettacolari e grandiose, autentici colossal della fantasia, ma salgo in moto, volo a Piombino infrangendo il record sulla Collesalvetti che apparteneva al Palla, e da lì a Portoferraio… con il primo traghetto utile. Da tempo considero Marco Aurelio Fontana un vero e proprio mito, e non perderei l’occasione neanche se fosse buona all’1 per cento. E poi, la storia della foratura quando consideravo già certa un’altra medaglia, e questa volta più preziosa di quella conquistata a Londra nel 2012, ha ferito tutti noi, grida vendetta! Ma lo Sport, come la vita, si sa, è così. Diciamo sorprendente.

Ma è vero…


Buongiorno Marco, grazie di esserci… davvero. Allora, dai, giriamo subito il coltello nella piaga, così non ci pensiamo più. Rewind emotivo sull’”accidente” di Rio. Come ti senti un mese dopo?

«Allora. Un mese dopo devo dire che l’ho digerita, ma all’inizio è stata abbastanza brutta. Brutta non il giorno stesso, ma quello dopo. Io dico sempre che il lunedì può essere il giorno più bello o il giorno più brutto. La domenica, anche quando le cose non vanno bene, difficilmente prendi una “botta” forte. Quando ci dormi sopra e ti risvegli al mattino dopo, se non è andata bene, allora ti fa più male. Quindi, il giorno dopo l’ho patita bene, l’ho patita a Rio e al ritorno a casa. Io non sono uno che si butta giù, ma sono convinto che una di quelle tre medaglie, ecco, era la mia. Ed è dura da digerire, perché dopo tutto il gran lavoro che abbiamo fatto, non prendere quella medaglia è brutto. Poi, passano i giorni, passano le settimane, e alla fine, come si dice, il viaggio è più importante della mèta, e io ci credo. Il cammino fatto fino a Rio, insieme al mio Team, soprattutto insieme al mio allenatore, a mia moglie, ai miei figli, a tutto lo staff personale, è stato talmente bello e intenso che vale più della medaglia, conquistata o mancata per una ragione così sfortunata. Anche se mi accorgo, certo, che con una medaglia sarei senz’altro più soddisfatto, almeno dal punto di vista agonistico».

 

Dal punto di vista della carriera, pur avendo ampiamente dimostrato di essere un Numero 1, la non-medaglia influisce sulla voglia di continuare, di prepararsi ancora, e sulle relazioni con chi ti sostiene, chi ti aiuta? Oppure, subentra immediatamente lo spirito di rivalsa che rimanda direttamente all’appuntamento con la rivincita?

«Allora, risposta complessa. Primo, ogni atleta già il giorno dopo deve dimostrare. Anche il Campione del Mondo non aspetta sei anni, ma il giorno dopo per far vedere chi è. Poi, quando si è in gara, si parte tutti dalla stessa linea, tutti sullo stesso piano. Dal punto di vista della carriera, sai, ho fatto quinto alla mia prima olimpiade, terzo e medaglia di bronzo a Londra, avrei potuto vincere un’altra medaglia a Rio, ma non è andata così. E questo è sicuramente un punto negativo per il risultato. Sul piano della performance ho dimostrato, pur tra ovvi alti e bassi, di essere ancora uno dei più veloci al Mondo. Per me questo è importante, questo è lo stimolo che mi farà andare avanti nei prossimi quattro anni. Perché, sì, l’obiettivo è di presentarmi alla prossima Olimpiade per il riscatto. Facciamo tante gare, Coppa del Mondo, Campionato Mondiale, Europeo, Italiano, ma quando affronti un’Olimpiade ti accorgi che c’è una magia, fuori dal comune, indescrivibile. Quello che ti dà un’Olimpiade non te lo dà nessun’altra atmosfera agonistica. Da qui a quattro anni c’è tanto tempo, lavoro, ma poi arriverà il momento in cui deciderò cosa voglio fare da grande, e ci sarò!».


L’Olimpiade di Rio. Per certi versi è stata anche criticata, soprattutto per alcune incertezze organizzative. Tu che l’hai fatta, che sensazione d’ambiente hai ricavato?

«Io ho fatto anche la pre-olimpica a Rio, a Ottobre, e posso dire che Rio de Janeiro è la città più bella che io abbia visitato. Per le atmosfere, per i brasiliani, perché sono così friendly, perché sei in giro la sera e la gente balla per strada. Insomma, l’atmosfera è fantastica. Non voglio dire che i Giochi rovinino questa atmosfera, ma c’è un grosso business, c’è tanta gente, un po’ di caos. Il Brasile ha fatto un po’ fatica, è la verità, ma è verità anche il fatto che non è stata poi così male come hanno detto. Tutti i Paesi, in questo momento, un po’ soffrono, e se l’avessero fatta, che so, in Germania, forse si sarebbero visti meno, ma i problemi ci sarebbero stati lo stesso. Sì, forse pulizia e sicurezza, per esempio, non erano al top, ma il Brasile ha fatto un grosso sforzo per organizzare i Mondiali di Calcio e le Olimpiadi, e alla fine direi che tutto è filato liscio. Dico anche che viviamo un periodo nel quale tutti si lamentano di tutto, e quindi è venuta fuori una versione più enfatizzata dei problemi del Brasile, ma non era male. Non era male l’atmosfera, ed è logico che se vai a fare business te ne interessi molto meno, neanche la vedi».


Ciclismo italiano “colpito” dalla sfortuna alle Olimpiadi? Ti senti un po’ “co-vittima” con Nibali?

«Vediamola da un altro punto di vista. Il ciclismo italiano ha vinto una medaglia d’oro nel ciclismo su pista, con Elia Viviani, che non vinceva da tanto tempo. Io, che sono un appassionato di bici e, poco, ma ogni tanto vado anche in pista, perché mi piace un sacco, perché è una disciplina classica, sono stracontento che Elia abbia vinto, e che abbia portato a casa una medaglia in una disciplina che deve tornare ad essere forte in Italia. Poi, il fatto che io e Nibali siamo stati sfortunati probabilmente è un caso, ed è una sensazione forte perché siamo una Nazione emotiva, che ci mette tanto, molto di più rispetto ad altre nazioni, e può succedere che mettendoci così tanto si possa anche rischiare che vada a finire così. È la voglia, la passione che ci mettiamo. Io, tuttavia, credo che anche se siamo sfortunati la gente veda quello che ci mettiamo e ci voglia bene, anche per questo».


Un programma importante, sulla distanza di quattro anni. Hai già cominciato o sei ancora in pausa, in riposo?

«Al momento sono ancora in vacanza. L’avevo già programmato, ben prima delle Olimpiadi. È importante, visti i carichi di lavoro a cui ci sottoponiamo, programmare accuratamente anche gli stacchi, le vacanze. È chiaro che abbiamo in ballo altre cose che continuano a correre, come le questioni contrattuali, e non puoi quindi stare tranquillo al 100%; ma quando sto con la mia famiglia, con mia moglie e i miei figli, e li vedo sorridere, sto sempre bene. Se poi ci metti l’Isola d’Elba, che è un paradiso, e poi ci piazzi Fabio, che è un amico e tutte le volte che lo chiami ti risponde subito con una proposta, e se poi ci piazzi delle moto da Enduro, allora si può ben capire che sono in paradiso davvero».
 

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La Moto.

«La Moto è una mia grande passione, e anche se non salivo su una moto da fuoristrada da gennaio, quando sento quello che succede quando stacchi la “frizioncina”, quando apri la manopola del gas, è sempre molto bello. Dico sempre che a quarant’anni vorrei fare la Dakar, anche se il contratto con mia moglie prevede che, prima di prendere dei rischi, io debba portare a casa dei soldini per far stare tranquilla la mia famiglia. Adesso posso dire che la preparazione, per le prossime Olimpiadi e per la Dakar, non è ancora iniziata, ma che ci stiamo muovendo in tutte le direzioni».


Per molti sportivi di rango la passione per la moto è, spesso, un vero e proprio tabù. A volte il divieto di praticare il motociclismo è espressamente aggiunto ai contratti. È stato o è il tuo caso?

«Allora, prima di tutto sui miei contratti, sulla carta non c’è alcun vincolo per cui io non possa utilizzare la moto. Poi, bisogna vedere se veramente sei appassionato, perché un conto è che ti piacciano le moto, e un conto è essere appassionato davvero, sentirti felice quando ci sali sopra, che sia per andare al bar, una passeggiata di cento chilometri o l’Elba 500. Ecco, io sono così, andare in moto mi piace un sacco, e quindi farei fatica ad andare d’accordo con un business partner che intendesse vietarmi, anche per una sola stagione, di andare in Moto. Magari non ci vado lo stesso, o ci salgo una sola volta, ma un vincolo categorico, contrattuale no, non lo si può chiedere a un appassionato come me!».


Dakar e rischio. Non c’è contraddizione, quindi, a volerla fare? Cosa vuol dire per te?

«La Dakar è pericolosa perché è una gara che dura tanti giorni, si guida per tanti chilometri e si sta in sella per molte ore al giorno. Ecco perché è pericolosa. Lo sarebbe anche se fosse tutta su asfalto, figuriamoci in fuoristrada. Detto questo, la Dakar è fascino. Il fascino di stare tante ore in moto, il fascino dell’avventura, il fascino della competizione. A me le gare piacciono molto, sono un agonista che gareggia con entusiasmo, figuriamoci se non piacerebbe correre in moto! E poi, anagraficamente sono un ’84. Sono cresciuto in un’atmosfera famigliare motociclistica, e mio papà mi ha sempre tenuto aggiornato. Anche sulla Dakar, e così ho cominciato a sognare la Dakar in Africa. Non so se la farò mai, e se la farò in Sud America, questo non posso dirlo adesso, ma c’è qualcosa di magico che mi attrae. Tra tutte le moto, quella da Enduro è quella che preferisco, che mi da maggiore senso di libertà, più adrenalina, e le moto della Dakar di oggi nascono da una costola delle moto da Enduro».


Ti sarai già posto la questione, ma rinnoviamola. Per fare la Dakar ci vuole una grande preparazione fisica, che non dovrebbe certo mancarti, e un grande equilibrio mentale che tu, da grande atleta, hai già, per forza. Questa è la formula corretta per tenere sotto controllo la maggior parte dei rischi. Potresti essere un “Dakariano” ideale.

«Certo, ci penso. Ho fatto una sola gara in vita mia, una prova del Trofeo KTM. In un contesto pur tutto sommato facile come quello, mi sono reso conto che fare una gara non è come andare a fare un giro in moto, anche se poi ho fatto i miei buoni tempi. Posso solo immaginare quale sia l’entità dell’impegno globale richiesto da una Dakar, ma anche immaginandolo enorme penso che potrei essere più adatto di tanti altri ad affrontarlo. Le gare sono gare, sono difficili, quella so che è difficilissima, ma mi attira. Da tanti anni mi piace dire che farò la Dakar, e chissà che un giorno non succeda davvero. Ecco, diamoci una scadenza, mi piace pensare che tra quattro anni, e prima dei quaranta, farò la mia prima Dakar».


E la bici?

«La bici non la mollo! Oltre a rappresentare quello che faccio tutti i giorni, mi fa impazzire, è stupenda. E quando vado in moto l’apprezzo ancora di più. Magari non per tutti è così, ma quando scendo dalla moto, quando mi sono sfogato e divertito, dopo che ho fatto una cosa che mi piace così tanto, apprezzo le differenze. Il silenzio rispetto al rumore, la leggerezza rispetto al peso, apprezzo la differenza di fatica che si fa in bicicletta rispetto alla fatica che si fa in moto. La bici rimarrà sempre con me. Comunque, starò sempre… su due ruote!».


Grazie mille, è stato istruttivo e piacevole. In bocca al lupo per la rivincita alle Olimpiadi, e per la Dakar che magari farai con Fabio, e per tutto. Altro che una foratura per fermarti!

«Crepi il lupo. Grazie a voi, un saluto di cuore!».

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