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Libia, Aprile ’97. Tra un sobbalzo e l’altro della corriera provo a prendere sonno. Sarà dura. Il pensiero va agli ultimi quattro giorni prima della partenza: la moto, i bagagli, i biglietti, il visto all’ultimo momento. Sembrava impossibile, e invece, improvvisamente come per magia, è andato tutto al suo posto.
Malpensa, aereo in orario. Tunisi, trovo subito Fabrizio e Gioele. Si comincia salutando i vecchi amici e si conoscono i nuovi della banda. Sembra proprio tutto ok. E invece no, l’aereo delle 15 per Djerba non parte, il decollo è rimandato di ora in ora. Ci dicono che c’è una tempesta di sabbia sull’isola e non si può atterrare.
Cosa facciamo? Perdere subito un prezioso giorno di viaggio ci sembra inammissibile. Decidiamo immediatamente, all’unanimità: si va in corriera. La partenza è fissata per le 20 e l’arrivo previsto per le 4. Guerra per farci restituire il bagaglio, taxi e via alla stazione delle autolinee.
Ed eccoci qua, tra un sobbalzo e l’altro, tra una fermata e l’altra. La meta si avvicina. Alle 5 siamo a destinazione, un po’ sul cotto, ricerca di una mezza dozzina di taxi e albergo. È il Maritime, super-extra-lusso. Subito in branda e a domani… che è già oggi.
22 Aprile. Djerba. Dopo tre ore in un letto il mondo è più bello. Controllo alle moto, recupero bagagli, abiti da lavoro (dal casco agli stivali, per intenderci) e ricchissima, strepitosa colazione, un giretto per provare la moto, caricamento bagagli e... partiti, siamo in viaggio!
È una gran bella carovana. Undici moto, due macchine (chissà se la KIA ce la farà) e “Moby Dick” la nostra grande ‘mamma’ bianca, l’Unimog di Giorgio. Il tempo è bello, i posti anche, l’andatura è ottima e la nottata è bell’e dimenticata. Benzina, e la Libia si avvicina.
Come da copione a Ben Guerdane compaiono gli sbandieratori, sventolano fasci di banconote libiche ai Bordi delle strade. Si contratta e si cambia tutti un po’ di dollari (mediamente 330 cucuzze libiche per 100 USD, ottimo) e si riparte verso la dogana di Ras Ajdir.
Ras Ajdir. L’uscita dalla Tunisia è abbastanza veloce. Qualche timore, invece, per le formalità di entrata. E invece no, sorpresa, entriamo in Libia in meno di due ore. Pare che sia quasi un record. Fissiamo sui mezzi le targhe arabe, solo per le foto ricordo. Poi le daremo in consegna a M.D. (Moby Dick).
Bukamash, Libia. Siamo dentro. Il paesaggio non cambia ancora, solo l’asfalto sembra migliore. Il tempo di abituarci alla nuova segnaletica, praticamente inesistente e quella poca scritta rigorosamente in arabo, e siamo a Zuara, città ordinata, con molti negozi, apparentemente più ricca delle ultime città tunisine incontrate. Qui facciamo conoscenza con il nostro accompagnatore, Nader, che, con suo figlio Sirage e un bel Toyotone benzina passo lungo, ci accompagnerà per tutto il viaggio.
Prendiamo a Sud verso il teatro delle nostre operazioni, attraversiamo qualche cittadina, l’impressione è bella, la gente è poca e sembra cordiale, la sera si avvicina e troviamo un posto per il campo. È sufficiente uscire pochi metri dall’asfalto per trovarci in un ambiente semidesertico, suggestivo e ideale per la nostra fermata.
Il tendino si monta in un minuto, il casino è sistemare tutto nell’ordine logico che mi faciliterà i bivacchi dei prossimi giorni. La prima cena è all’altezza della situazione (una fame della madonna) e ci predispone ad una sana dormita tra i radi cespugli di questo primo campo sotto una luna splendida e luminosissima.
23 Aprile. Goush. Sveglia presto e via ancora a Sud e poi ad Ovest per Nalut. Posto di controllo. Nalut è gradevole, case moderne, ordine, tanta gente in giro (c’è il mercato). Magnifica sorpresa del primo pieno: benzina super a meno di 60 (sessanta) lire italiane al litro. Superiamo l’abitato e prendiamo la strada per Darj lungo una bella serie di rilievi, percorso vario ed interessante.
Sinawan. Strada sbarrata, posto di guardia. Due gendarmi che vengono verso di me con aria decisa. È fatta, mi dico, senza targa, senza libretto e senza passaporto, non capiranno il mio scarso inglese. Invece no: uno dei due si avvicina e sposta il bidone che sbarra la strada. Sorrisi, strette di mano, salam alekh e how are you e via. Bel Paese.
Arriviamo a Darj, un bel pieno, un’omelette, poi prendiamo la pista. Più che una pista sembra l’autostrada del sole senza asfalto. Comincio a prendere confidenza con l’aderenza sulla terra, ogni tanto qualche pezzo di sabbia, ma bisogna fare attenzione alle fenditure e agli avvallamenti che si presentano improvvisamente.
Ogni tanto si viaggia insieme, per il resto ognuno va... dove lo porta il cuore. Il nulla portato a immensità, ed è ora di fare il campo. Ci fermiamo vicino ad un cubo in muratura, a un centinaio di metri vediamo una stele: la scritta è in italiano e ci indica un pozzo e un campo di aviazione fatti dagli italiani al tempo dell’occupazione. Il pozzo si presenta in perfetto stato, ma l’acqua, dal Gandini, è a 60 metri di profondità ... Data l’evocazione storica del luogo decidiamo di fare campo nei pressi di Bir El Gazeil, e rizziamo le nostre tende tra i cespugli.
Prima di spogliarmi cambio la gomma posteriore, liscia, con un bel Desert nuovo fiammante. Tenuta da riposo, un po’ di pulizia e cena splendida in un posto altrettanto. Luna e stelle sono uno spettacolo, la cometa è un’immagine notevole nel firmamento, con una coda da noi inimmaginabile. È chiaramente merito dell’assenza di inquinamento ottico e atmosferico.
24 Aprile, Bir El Gazeil. Le azioni del risveglio diventano un rito: occorre prima riprendersi, poi svuoto la tenda mi metto gli abiti da lavoro e chiudo le borse, poi l’abbondante colazione (quest’anno è stata ottima l’idea del latte in polvere, più pratico di quello condensato) con caffè, latte, the, biscotti e marmellata, si sparecchia, magari un altro caffettino, poi si chiude la tenda, si carica il tutto su M.D., ci si carica sulle moto e via. Certo è che le faccette che si vedono in giro al mattino sono veramente notevoli, però l’efficienza non ne risente e all’ora stabilita, normalmente le otto, i motori sono accesi.
A Sud per l’erg di Oubari, la pista è sempre in terra e sassi, faccio conoscenza con il fesh-fesh, I tratti “scuola” sono brevi e si superano senza grosse difficoltà. A ogni ostacolo che si supera aumenta l’esperienza.
Oltre al solito Fabrizio, ho visto l’Andrea Banchetti veramente in forma, sempre in piedi a danzare nelle curve con fesh-fesh dove io arrancavo. Il gruppo sembra piuttosto omogeneo e veloce.
Poi la pista si alza un po’, diventa più sinuosa, si sdoppia e ogni tanto ci si perde di vista. Prima le moto, sgranate in funzione del “manico”, poi le macchine e infine la guida e Giorgio con M.D.
Sosta al nuovo pozzo di Hassi Ifertas, conversazione con i militari (figuriamoci! parlano solo arabo) che nell’attesa ci offrono un magnifico the superconcentrato, poi via verso l’erg.
Si guadagna il Sud, le prime dune, per le macchine è un dramma. Si prova verso Ovest, niente da fare. Quindi ci manteniamo a Sud, che poi è un Sud-Ovest, anche un Ovest. Comincio a prendere confidenza. Arriva sera, il campo e spengo la cavalcatura. Lo scenario è veramente stupendo. Sono belli questi primi momenti di pace dopo che il motore ha smesso di pulsare!
La cena è sempre ottima e abbondante, la lotta per accaparrarsi razioni privilegiate è sempre più accanita, la scarsità di stoviglie di plastica dà vita le soluzioni più strane: si cominciano a vedere, dopo i fondi di bottiglia di plastica utilizzati come bicchieri, anche le bottiglie tagliate per il lungo utilizzate come gavette.
Il silenzio di queste notti è indescrivibile, anche nell’immediato dopocena è sufficiente allontanarsi di qualche passo dal campo per immergersi in questa assenza di suoni irreale, vedere le luci dall’alto di una duna mi dà l’impressione di essere un astronauta che dalla solitudine dello spazio guarda la Terra.
25 Aprile. Da una parte la luna e dall’altra il sole, partiamo decisi per l’attraversamento dell’erg. Nader dice sicuro che stasera dormiremo all’Hotel di Sardeles. Mah, se lo dice lui!
La pista è sempre sabbiosa, ma scorrevole. Le moto danzano intorno a caccia di dune e inquadrature suggestive per le foto ricordo, o anche solo di sensazioni. Dune. Un gradino dopo una dunetta tagliata mi procura un’insaccata alla schiena, sono conciato male, provo a proseguire. Andrea medico mi dà una sistemata, il suo consiglio è di smetterla, per oggi. Entra in gioco il pilota di scorta, Ramon prende la mia cavalcatura e io salgo sul camion. Proviamo anche quello.
Accanto al campo c’è un bidone da 200 litri, di quelli usati normalmente per contrassegnare le piste, che ho l’occasione di esaminare attentamente. A prima vista sembrerebbe verniciato. Lo esamino più attentamente. L’azione della sabbia, del vento del sole ha formato una patina marrone sulla sua superficie ossidata, satinata ed uniforme, simile a uno specifico trattamento artificiale.
I ragazzini, Gioele e Sirage si arrampicano sulle dune con un bob da neve e scivolano a valle. Per essere perfettamente felici forse manca loro solo un impianto di risalita.
26 Aprile. È l’alba, si parte nel nulla, una strana foschia, tutto piatto, sabbia ocra e sassi neri.
Arriviamo ad un pozzo annunciato da una macchia di vegetazione. Si tratta probabilmente di Bir Tegheri. Provo per un po’ il DR 350 di Maurizio, sembra un giocattolino, ma sul molle, per le sospensioni e la potenza, meglio la mia XR. Giù per alcuni canaloni. ci abbassiamo di quota su una serie di terrazze naturali. La pista diventa uno spettacolare nastro dritto di sabbia e sassi. Entriamo in un oued, ne costeggiamo un altro e quando il paesaggio si fa più monotono cominciamo ad intravedere i segni della civiltà: piloni elettrici.
Siamo nelle vicinanze di Sardeles (Al Awaynat) e dopo il pieno, è vero, ci aspetta l’hotel. Bella doccia, bucato, quattro balle seduti all’ombra a sorseggiare pepsi ghiacciate, cus-cus, insalatine fresche sotto gli occhi fulminanti della nostra équipe medica, e notte come al solito magnifica.
27 Aprile. La strada per Ghat. 100 Km di asfalto, gli ultimi venti Km di micidiale tole ondulé . Melgio uscire sulla terra. Ghat. Facciamo il pieno ed andiamo in centro. Formalità di ingresso all’Akakus, visita della città. Ne ricevo un’impressione strana. molte costruzioni moderne, poca gente, nonostante sia giorno di mercato. Sotto una pergola ci gustiamo quel che offre la casa: pane, pollo e verdure fresche, l’immancabile Pepsi e qualche birra analcolica marocchina. Poi veniamo al sodo: la città vecchia.
Sembra un villaggio fantasma, castelli di sabbia intonacati a calce fino a dove si può arrivare stando sulla punta dei piedi, viuzze strette e contorte, fondo di sabbia. In effetti è molto caratteristico. Si ha l’impressione che un acquazzone, seppur improbabile, potrebbe fare piazza pulita. Guadagno un terrazzo che domina l’abitato e, fatte alcune foto, stabilisco dall’alto il cap che dovrò tenere per uscire dal labirinto. Tra le viuzze le offerte di “autentici capolavori dell’artigianato Tuareg strappati alle loro donne” si moltiplicano. Anche se non propriamente autentici, gli oggetti sono certamente caratteristici. Solita trafila della negoziazione e torno al gruppo con qualche dinaro in meno e qualche tangibile ricordo in più.
Si è aggiunta una nuova guida, Ibrahim, che ci accompagnerà fino a Idri. Siamo al completo: Nader, l’accompagnatore, è simpatico e volonteroso, il figlio, Sirage, fornisce la giusta compagnia a Gioele (e prova a fare da “motorino d’avviamento” a Marco). La prima guida, Mohammed, sembra veramente un giusto, conosce i luoghi e sa dove passare. Sempre a Sud, verso il Niger. Piatto, sabbia, qualche sasso, si va verso il nulla. Sulla sinistra compaiono le prime dune, altissime, bellissime. Qualcuno, distratto dallo spettacolo, finisce dentro una pozza di fesh-fesh.
Le prime grandi dune suscitano qualche appetito. Eccone una veramente alta e Fabrizio è già in cima, il Secco lo segue, io pure. L’esuberante Andrea dr. calcola male una staccata e abbatte i due poveracci fermi sulla cresta della duna con le loro moto. Meno male che la sabbia è molle.
Il paesaggio è stupendo e maestoso: rocce nere, sabbia ocra, calcari erosi nei modi più fantasiosi di un colore appena più scuro della sabbia; la sabbia compatta leggermente ondulata mi fanno pensare di essere su un fondale marino.
Ad uno degli immancabili posti di guardia una magnifica parete di sabbia addossata alla roccia scatena le fantasie di Meoni: è gara tra lui e Federico per chi arriva più in alto. Lo spettacolo è apprezzato dai soldati che non hanno dubbi nel decretare che è il Numero Uno.
Il vento aumenta. A un certo punto M.D, inalbera un lampeggiante giallo che aiuta a mantenere compatto il gruppo (bravo Giorgio, bella idea!).
28 Aprile. Akakus. Il vento sembra meno forte, colazione, carico e partenza. Il giro odierno è dedicato anche ai graffiti. Belli, sicuramente, ma visti cinque è come averli visti tutti. Se a questo aggiungiamo che nell’ultima serie che abbiamo visto dietro a gazzelle e giraffe c’era anche una jeep... Nel girovagare incontriamo anche una capanna e ci fermiamo a conoscere un “eremita” che pare viva sul posto con quel che riesce a ricavare!
Fabrizio fa capire a Nader che forse è il caso di allungare un po’ il passo e questi non se lo fa ripetere due volte. Parte una bellissima cavalcata veloce in uno scenario da favola. Ricordo un paio di discesoni di sabbia e alcuni capolavori di intarsio della natura su rocce e calcari. Posto di controllo e siamo fuori dall’Akakus, in un nulla di ghiaietto e pietraie sconfinate.
Il vento aumenta, proprio sul naso, occorre aprirsi e distanziarci a causa della polvere, andare forte stando in piedi è stancante. Il rischio di finire improvvisamente in una zona di fesh-fesh alto. Sono molto stanco, e come me penso anche altri. Mi fermo a osservare una distesa di strane palle che stiamo incontrando sempre più spesso. Sono colaquinte, specie di zucche che maturano e seccano sul terreno, palle grandi come quelle del ping-pong o del biliardo. Quando sono perfettamente secche si staccano dalla pianta e risuonano, se agitate, come maracas.
La pista di sassi sul Msak Mostafit ci sta assorbendo le ultime energie.
29 Aprile. Wadi Mathendous. Ripartiamo sulla perfida pietraia. Dopo un po’ la pista si addolcisce, si spiana, un po’ di relax. Frustiamo i cavalli, ventre a terra sparpagliati su una pista che pista non è. Ci sono ruotate dappertutto, su un fronte di chilometri. visto il traffico che c’è, immagino che alcune di quelle tracce possano appartenere agli automezzi dei primi italiani nel Fezzan negli anni ‘20.
Si prende a Nord per una pista tipo autostrada, in effetti ad un certo punto compare anche l’asfalto, non c’è più storia, senonché la strada si inabissa tra due altissime pareti di roccia, scende e ad una curva ci rendiamo conto di essere scesi da un altopiano. Ci si presenta davanti agli occhi Germa.
Lasciata malvolentieri la trattorietta prendiamo l’asfalto per Sabha e dopo qualche chilometro prendiamo la pista a sinistra per la zona dei laghi. Fondo spettacolare, si gioca sulle dunette, a un certo punto ecco il lago Mandara, spettacolo inconsueto: uno specchio d’acqua incastonato in un paesaggio desertico, di erg. Veramente magnifico, tranne le minuscole e micidiali zanzare. Qualche chilometro ad Est, raggiungiamo il lago di Oum El Ma, l’acqua sembra di cielo, palme e dune ci si specchiano. Un paradiso inatteso. Sul tragitto per raggiungere questo lago il buon Fabrizio ci ha dato uno schiaffo morale. Noi impegnatissimi sulle dune e lui con l’intera famiglia Meoni sulla moto. Elena, Gioele e lui con una mano sola.
Al ritorno a Mandara l’euforia, o la stanchezza, gioca un brutto scherzo ad Andrea che si lussa una spalla dopo un bel capottone nella sabbia. Per lui la cavalcata è finita.
30 Aprile. Mandara. La sveglia ci offre uno spettacolo abbagliante, le dune sembrano un manto di velluto appoggiato sulla terra. Andiamo verso il lago di Gabroun su un bellissimo percorso tra le dune, ognuno può scegliere tra la pista aperta dai battistrada e le più personali divagazioni, non ci sono passaggi difficili ed i chilometri passano velocemente. Il lago Gabroun. Grande, contornato da una sottile striscia di vegetazione. Oltre ai resti di un villaggio, disabitato, all’estremità Est ci sono un gruppo di ‘zeriba’ sistemate per accogliere turisti, un paio di pergole affacciate sull’acqua e il bar.
Arriviamo a un difficile passaggio di dune nell’ora meno propizia. Né la Toyota libica né M.D. riescono a passare. Si decide allora di dividere la carovana. La Kia sarà la macchina apripista seguita da Dario e Marco con la Toyota e da otto motociclisti (compreso il pilota di scorta, Ramon, sul mezzo dell’infortunato Andrea). M.D., Toyota libica e i tre rappresentanti del M.C. Livorno raggiungeranno Idri per asfalto via Sabha. Cadute, insabbiamenti, ma si avanza bene. Noi motociclisti facciamo spesso riferimento, per il superamento delle dune, al tipo di salto che fanno le auto sulla cresta. Se riusciamo a vedere il ponte posteriore mentre le ruote si sollevano da terra allora prestiamo più attenzione. Qundo l’avventura comincia a pesare, eccoci fuori, il bordo sassoso di un oued, probabilmente Wadi Zellaf. Ora si marcia sul piano e ci dirigiamo verso una zona coltivata, vediamo gente, fili elettrici, case ed infine l’asfalto. Hatia, circa sessanta km da Idri.
Ci fermano al posto di polizia. Dodici persone, due macchine ed otto moto, ma riusciamo a malapena a racimolare cinque o sei passaporti, due libretti di circolazione e tre targhe. Aggiungo anche che nessuno di noi parla arabo e loro, chiaramente parlano solo quello. Se fossimo in Italia probabilmente saremmo ancora là adesso, invece nel giro di un’oretta siamo liberi di andarcene. Giro per il paese alla ricerca di cibo e… ritorno al distributore vicino al posto di polizia che pare essere l’unico punto di ristoro della zona.
1° Maggio. Il mattino ci rivela che siamo… nel deserto. Partiamo. La carovana procede abbastanza spedita in un paesaggio che diventa sempre più piatto, è l’Hamadat Al Hamrah.
Una cosa notevole sono i miraggi, scorci di paesaggi lunari… lagunari. A un certo punto vedo una cosa ancor più strana, ma non è un miraggio, è Nader in sandali e maniche corte lanciato a manetta sul DR 350 di Maurizio, che per oggi ha dichiarato forfait. Beata incoscienza, speriamo che il Dio degli ubriachi lo assista perché se cade con quella tenuta si dà una pelata memorabile.
Non ho ancora ricordato le nostre soste buffet, quasi tutti i giorni ci si ferma almeno una volta per rifocillarci non solo con le bevande. Normalmente lo spuntino è rappresentato da una scatoletta accompagnata da crackers. È curioso osservare la nostra trasformazione. Rispetto ai primi giorni, quando si vedeva gente cercare posate di plastica per servirsi, in questi ultimi non è raro veder chiacchierare distratti soggetti con un moncone di sardina sott’olio tra le dita e altri con il palmo della mano ricolmo di Manzotin. Lo spirito è decisamente quello giusto.
Alle 6 siamo in cerca di un qualsiasi ridosso per piazzare le tende, il vento è sempre più forte. Su quel piattone non c’è un rilievo di mezzo metro. Appena vediamo un cespuglione ci fermiamo.
2, 3, 4 Maggio. Di nuovo Bir El Gazeil, Darj. Poche annotazioni. La moto di Fabrizio di asfalto non ne vuole sapere e reclama inondando pilota e vicini di olio caldo (scoppio di uno sfiato dell’olio), inconveniente prontamente riparato al distributore, mentre i più, sotto un’ombrosa pergola, consumavano un lauto, fiero ed abbondante pasto. Nalut, la pioggia libica. Tre gocce, quante bastano a farci rifugiare in una simpatica trattoria. Festa è fatta. Nonostante i dieci GPS accesi non troviamo il punto del bivacco, ci fermiamo dall’altra parte della strada. Goush, Zuara. Salutiamo Nader, Sirage e Mohammed e ci mettiamo nelle mani degli ‘sdoganatori’. Alla frontiera di Ras Ajdir le formalità sono rapide. Zarzis e Djerba la Douce. A cena quasi non ci riconosciamo, tutti sbarbati e puliti. Il Moro i tenuta arabeggiante su scarpe da tennis, Cristina con una minigonna mozzafiato, festeggiamenti al Secco per il suo compleanno.
Il viaggio di ritorno è senza storia, contrariamente all’andata mancano l’aspettativa e, fortunatamente, anche gli imprevisti. Probabilmente affronteremmo volentieri ancora quelle nove ore di corriera a patto di ricominciare tutto daccapo. Ciao ragazzi, alla prossima.
18.5.’97 Gaio
“Gaio” è Francesco Gaielli, pavese trapiantato nel comasco, classe ’48, indomabile appassionato di Moto, di Vela, di Viaggi. Un giorno ha conosciuto Fabrizio Meoni, Federico “Il Secco” Milighetti, Giorgio Lacava e il Gruppo che, a rotazione, partecipava ai viaggi africani mitici che “Lo Svizzero” organizzava in Nord Africa, spesso con la guida d’eccezione del “Pilota”. Il diario di viaggio originale di Francesco è un capolavoro di dettaglio e precisione, mi dispiace di aver dovuto “comprimerlo” per non rischiare di andare a puntate interrompendo il flusso delle emozioni. Spero che sia rimasta intatta l’essenza asciutta, evidente, di un grande ricordo. Grazie mille.
Percorso totale: 3.540 Km
Giorni: 12
Percorso giornaliero medio: 295 Km
Percorso giornaliero minimo: 94 Km
Percorso giornaliero massimo: 495 Km
Il Mucchio:
Toyota Libica: Nader, Sirage, Mohammed, Ibrahim
Unimog (M.D.) Giorgio: Franca, Elena, Gioele, Ramon
Kia: Moretti, Cioppi, Cristina
Toyotone: Dario, Marco
KTM 620 muniti: Fabrizio, Federico, Andrea, Stefano, Daniele
XR 600 muniti: Andrea dr. Trauma, Andrea dr. Denti, Marco, Gaio
DR 350 munito: Maurizio dr. Tutto
TT 350 munito: Bruno